martedì 6 agosto 2013

ERIC ANDERSEN

Blue river (1972, Columbia)


"Siedo qui, abbandonato, come un libro su di uno scaffale. Nessuno nelle vicinanze che sfogli le pagine: ti lasciano leggerle da solo e te ne stai lì, sconsolato, chiedendoti come finirà la storia". L’incipit di Is it really love at all giustifica l’affermazione di Dylan, secondo il quale Eric Andersen sarebbe “Uno dei migliori cantautori folk". 

Dopo una manciata di album formativi tra il 1965 e il ’71, è con Blue river che il cantautore statunitense azzecca una formula intimista che farà scuola in patria (vedi James Taylor) e ne cementerà lo status di autore cult, lontano dalle beghe di un mercato che ne avrebbe certamente intaccato la purezza. Is it really love at all resta la prova più evidente di un modus che, partendo dalla tradizione americana, torna alle radici britanniche lambendo le amare dolcezze di Bert Jansch e azzardando dettagli strumentali di matrice classica europea (con le commoventi incursioni di fiati e vibrafono). Wind and sand gioca alla sottrazione: piano e fisarmonica sprofondano in una malinconia ancestrale su cui la voce sospira immagini semplici al punto da suonare come haiku occidentali. La titletrack prende a prestito un gospel facendone occasione per un esistenzialismo in odore di saggezza, rinforzato da un ritornello in cui l’amica Joni Mitchell subentra al controcanto.
 
Caso unico nella storia della musica popolare, le registrazioni dell’album successivo, Stage, verranno smarrite negli archivi della Columbia poco prima della stampa. I nastri saranno recuperati solo vent’anni più tardi, confermando la grandezza di un autore sottovalutato in virtù di dinamiche che sfuggono a ogni criterio artistico.
 
genere: folk intimista

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