mercoledì 12 aprile 2023

WHITE NOISE

 An electric storm (1969, Island)


Come per tutte le novità, anche l’elettronica, per il semplice fatto di essere una novità, finì con lo stuzzicare l’entusiasmo del business discografico. Così accadde all’unico album dei White Noise, ensemble composto dalla pioniera della musica elettronica inglese nei sixties, Delia Derbyshire, insieme al compositore Brian Hodgson e a David Vorhaus, eclettico bassista con un formazione Classica ma il pallino per la sperimentazione.

Due i pezzi originariamente prodotti e pensati come singolo; fu proprio il fondatore dell’etichetta Island, Chris Blackwell, ha spingere il terzetto nella direzione di un full length album, operazione che richiese un anno e portò la raccolta a un totale di sette brani. Impiegando con ingegno e un pizzico di genialità l’Ems Vcs 3, primo sintetizzatore prodotto in terra d’Albione, e fondendolo con il contrabbasso di Vorhaus (la cui timbrica venne modificata simulando violino e violoncello) sono creati brani in cui il rumore bianco incontra il formato canzone, alternando rumorismo sintetico a jingle elementari e giocando, con estro collageistico e umori psichedelici, agli alchimisti, sicché lo studio di registrazione diviene strumento aggiuntivo per trasformare suoni convenzionali in esperienze inaudite.

Lo scarso interesse commerciale dell’operazione non impedì ad An electric storm di emergere, nei decenni successivi, come cult album, citato tra i propri ascolti di riferimento da istituzioni dell’elettronica nei nineties quali Orb, Sonic Boom e Add N to (X).

genere: industrial ante litteram

mercoledì 29 marzo 2023

DAVE BALL

In strict tempo (1983, Some Bizzare)


A cavallo tra la composizione del lodevole The Art of falling apart e i barocchismi synth-pop del sottostimato This last night in Sodom, il tastierista Dave Ball accantonerà per il tempo di un solo album solista il progetto in duo con il cantante Marc Almond, quei Soft Cell per i quali verrà ricordato negli annali dell’elettronica decadente, licenziando una raccolta di brani dall’alto profilo artistico.

Non volendo ricorrere al timbro vocale del solito Almond - che pur capitombola come direttore artistico nella grafica sfacciatamente queer dell’Lp - Ball chiama a se due cantanti altrettanto istrionici, il frontman dei Virgin Prunes, Gavin Friday, e Genesis P. Orridge, teorizzatore del genere industrial allora al proprio apice nell’esperienza musical-esoterica Psychic Tv. In aggiunta alle tinte dei sintetizzatori, il compositore raduna una lineup comprendente sax, trombone, chitarre e una sezione d’archi nella quale si distingue, alla viola, l’allora moglie del nostro, tale Gini Hewes. In strict tempo profuma qua e là di pre-produzione, con momenti illuminati da un’oscurità baudleriana calata negli eighties più sperimentali. Ritmi marziali, campionamenti da voci distanti e melodie minori sono il tappeto sonoro su cui si spalmano i cantati/recitati di Friday e P. Orridge, venefici sacerdoti di un paganesimo in formato canzone. 

Disinteressato a proseguire l’esperienza al di fuori dallo studio di registrazione, Ball tornerà a far combutta con Almond per un altro anno prima dello scioglimento del duo. Seguiranno alcune discontinue e trascurabili collaborazioni, la più trascurabile e indesiderata delle quali sarà proprio la reunion dei Soft Cell nel 2001, in tempo per lanciare sul mercato l’innecessario Cruelty without beauty

genere: synth-pop

giovedì 16 marzo 2023

MAURICE DEEBANK

Inner thought zone (1984, Cherry Red)


Pallido e striminzito, lo sguardo infantile perso in un mondo di sogni ovattati, Maurice Deebank non vantava le credenziali per divenire un guitar hero. Tuttavia, la sua collaborazione con l’enigmatico cantautore Lawrence nella band The Felt, contribuì a licenziare alcuni degli album più emozionanti e seminali partoriti nel Regno Uniti durante gli eighties, fino all’abbandono di Deebank nel 1984, dopo quattro memorabili Lp.

Le doti chitarristiche di quello che certa stampa specializzata definì “padre della chitarra indie” sono da ricercarsi perciò nella sua avventura discografica coi Felt (su tutti, The splendour of fear) come anche nella sua unica prova solista, registrata subito dopo l’abbandono dei compagni. Inner thought zone è caleidoscopio strumentale di emozioni scintillanti, prova di stile che, sia nello strumming che nell’arpeggio, ha influenzato icone della chitarra pop-rock come lo Smiths Johnny Marr. L’introduttiva The watery song riassume perfettamente genio e influenze formative del nostro (gli studi Classici al conservatorio di Birmingham ma pure autori di nicchia a cavallo tra Anni ’70 e ’80, da Captain Beefheart a Steve Hillage). I barocchismi del suo stile non indulgono un istante in aridi tecnicismi, concedendo invece scelte accordali armonicamente complesse e cambi di mood tenuti insieme da una malinconia squisitamente british.

La reissue su cd del 1992 aggiunge quattro perle incise otto anni più tardi, tra le quali è imprescindibile nominare l’omaggio al compositore russo Alexander Scriabin A tale from Scriabin's Lonely Trail, un sali-e-scendi di momenti ambientali e dissonanze dove emerge, in ultima, la chitarra elettrica, sostenuta nella culla di archi sintetici tutt’altro che rassicuranti.

genere: indie strumentale

martedì 7 febbraio 2023

JACK LANCASTER + ROBIN LUMLEY

 Peter and the wolf (1975, Rso)


Due anni prima della registrazione con la voce narrante di David Bowie - avveduta iniziativa per portare la Musica Classica alla massa adolescente sfruttando la popolarità di una rockstar al suo apice - l’arcinota composizione del russo Sergej Prokof'ev Peter and the wolf venne riplasmata da un manipolo di fuoriclasse capitanati dai produttori britannici Jack Lancaster e Robin Lumey

Qualche nome nella mischia: Brian Eno, Phil Collins, il Thin Lizzy Gary Moore, Julie Driscoll, Gary Brooker dei Procol Harum, il frontman dei Ten Years After Alvin Lee, il batterista dei Colosseum Jon Hiseman, l’ex Yes e King Crimson Bill Bruford e perfino il violinista Stéphane Grappelli, leggendario collaboratore del jazzista Django Reinhardt. Il risultato è frammentario ma creativo; bypassate le brevi narrazioni vocali atte a introdurre personaggi e situazioni di una storia poi svolta in forma strumentale, i brani di cui è composto questo Pierino e il lupo anglosassone offrono atmosfere di prog bucolico (il simil Genesis periodo Nursery cryme su Introduction), la country fusion Peter’s theme e fino a cavalcate rock complicate dalle incursioni elettroniche dal genio autodidatta di Eno in Wolf and duck.

Sperimentata una particolare intesa con Collins e altri due partecipanti alle session - il bassista Percy Jones e il chitarrista John Goodsall - l’anno successivo Lumey richiamò i tre in studio per formare un gruppo vero e proprio, quei Brand X che, almeno dal ’76 all’80, licenziarono una manciata di album rock jazz ancor oggi in attesa della giusta rivalutazione. 

genere: art rock

mercoledì 18 gennaio 2023

ALUN DAVIES

Daydo (1972, Cbs)


Un lungo ricovero ospedaliero causato da una tubercolosi poi fortunatamente debellata, ispirò al cantautore Cat Stevens un nuovo inizio di carriera: abbandonato il pop usa-e-getta dei primi due album, nel 1970 si reinventò attraverso un folk intimista che ne decretò il successo mondiale. Fedele compagno di quella rinascita artistica gli fu l’amico Alun Davies, chitarrista britannico di rara sensibilità, braccio destro di “Gatto Stefano” da lì e fino all’illuminazione del 1977 che avvicinò la superstar all’Islam trasformandola in Yusuf Islam.

Con una manciata di ottime canzoni in testa e motivato dalla visibilità indiretta che gli sarebbe derivata dall'appartenenza alla corte di Stevens, Davies azzardò il proprio esordio solista, a oggi unica testimonianza delle sue capacità compositive. Daydo è squisito esempio di quel folk revival di matrice albionica, smerciato alle nuove generazioni grazie a un’onesta inclinazione all’artigianato pop. Gli intrecci di chitarre acustiche in Market place abbozzano l’acquerello di un emozionante sentimentalismo, vantando atmosfere simili a quelle di Stevens, sicché a qualche critico del tempo sorse la curiosità rispetta a chi copiasse chi. Dell’album, Stevens è effettivamente coproduttore, coautore di Portobello Road oltre a prestare aiuto qua e là con i cori e un pianismo semplice ma in grado di lasciare una riconoscibile impronta (Old Bourbon).

Tutt’altro che uomo da palcoscenico, il buon Alun si lasciò scoraggiare dagli scarsi risultati commerciali di quest’opera prima, preferendo militare nelle file di Stevens come pur pregevole strumentista, tornando timidamente sulla scene grazie al tiepido An other cup, resurrezione del 2006 di Cat/Yusuf nel mondo della musica di consumo.

genere: folk pop

lunedì 9 gennaio 2023

NICOLA ALESINI + PIER LUIGI ANDREONI

Marco Polo (1995, Materiali Sonori)


Massimo esempio di quartomondismo italiano, pur condito da ospitate internazionali di prima caratura, il Marco Polo firmato dal sassofonista Nicola Alesini e il tastierista Pier Luigi Andreoni racconta col linguaggio dell’emozione un mondo senza confini, attraversato in un vagabondaggio post-moderno sicché le ragioni della musica etnica incontrano le istanze di pop, jazz ed elettronica pura.

In apertura, Come morning calza un cantautorato atmosferico elevato dalla voce senza tempo di un David Sylvian in stato di grazia, presente nelle altrettanto raffinate The golden way e Maya. In abbinata al sapiente utilizzo dei synth di Andreoni, si aggiunge la perizia atmosferica di Roger Eno, la cui levità contrasta i dettagli chitarristici di David Torn, con assoli che rimandano al frippertronico Robert Fripp alzando il livello di improvvisazione del tutto. The valley of Palmir si tinge di una malinconia che non conosce geografie, complice il pianoforte liquido del mai abbastanza rivalutato Harold Budd.

Seguirà un secondo volume, tre più tardi, sempre impreziosito da nomi altisonanti della ricerca sonora (tornano Eno, Budd e Torn, a cui si aggiunge il fratello di Sylvian, l’ex batterista dei Japan Steve Jansen), ma non a fuoco come il lavoro precedente. Le due fatiche discografiche si attestano come ottimi biglietti da visita per incuriosire l’ascoltatore rispetto alle carriere soliste di Alesini e Andreoni, sperimentatori che il Bel Paese ancor oggi fatica a comprendere.

genere: quartomondismo italiano

lunedì 19 dicembre 2022

MIKE HERON

 Smiling men with bad reputations (1971, Island)


Il tramonto dei sixties proiettò il mondo della musica popolare in un’era di ulteriori entusiasmanti possibilità: il decennio alle porte testimoniava la fioritura di un giardino ancor più selvaggio e misterioso del precedente, grazie anche all’affermarsi di glam, prog e kosmische musik, per citare che tre dei generi allora neonati. Con nove album all’attivo per il seminale gruppo di folk psichedelico Incredible String Band, il polistrumentista e cantante scozzese Mike Heron capì bene che “hippy” sarebbe divenuto di lì a breve un termine fuori moda e, complice il flop del documentario sulla band e relativa colonna sonora omonima Be glad for the song has no ending, mollò il progetto per tentare carriera solista.

La sfida era complessa: preservare quella formula di folk ed esotismo che aveva concesso la fama agli Incredible, esibendo un plus al passo coi tempi, condendo la ricetta con la spezia di un rock elettrificato per allargare il bacino degli ascoltatori. Heron chiamò a sé artisti amici e compagni di etichetta (quella Island per cui era uscito l’ultimo album della vecchia band), affidando la produzione dei propri acquerelli cantautorati a Joe Boyd, eminenza responsabile di alcuni tra i più straordinari arrangiamenti del folk britannico allora in pieno sviluppo. Alle session di Smiling men with bad reputations presero parte istituzioni del pop-rock di sempre quali John Cale, Ronnie Lane degli Small Faces, Richard Thompson e perfino due terzi degli Who (Pete Townshend e Keith Moon, sotto lo pseudonimo Tommy & The Bijoux).  

Nonostante un irripetibile manipolo di talenti, l’opera ottenne scarsi riscontri commerciali, fatto che indusse Heron ad attendere altri cinque anni prima di rientrare in studio di registrazione. L’album è divenuto nel tempo un cult, eclettica manifestazione di uno scafato alchimista di sogni lisergici, qui intento a preservare la magia diversificando la formula.  La versione rimasterizzata aggiunge due bonus, impreziosite dalla chitarra di Jimmy Page e il pianoforte di Elton John. 

genere: folk-pop psichedelico

martedì 25 febbraio 2014

PAUL BRADY

Hard station (1980, Polygram)


Esiste una specie di filo invisibile che unisce il flusso di coscienza iniettato nel songwriting statunitense da Jackson Browne e raggiunge il suo apogeo nel fenomeno da stadio di Bruce Springsteen. Ciò che il boss ha venduto ad almeno quattro generazioni di yankee vitaminizzati (e, di riflesso, agli estimatori del rock muscolare di tutto il mondo) è un approccio canzonettistico in bilico tra la retorica patriottica dell’hobo santificato e lo spirito festaiolo del ‘r’n’r Anni ‘50. A mancare, tra gli stili dei due personaggi, è un punto di equilibrio che sposi eccellenza formale a emozionabilità senza per questo suonare artificioso.
Per un album almeno il miracolo riuscì al semisconosciuto Paul Brady, polistrumentista irlandese già distintosi nel 1978 con Welcome here kind stranger, raccolta imprescindibile per gli amanti del folk di matrice albionica. Hard station è l’incursione del Nostro nel pop-rock, esperienza irrobustita da un talento compositivo su cui al tempo in pochi avrebbero scommesso.
 
Si apre con Crazy dreams, viaggio nei ricordi di una giovinezza ancora palpitante, riprodotto da una line-up perfettamente coesa. The road to the promise land, a dispetto di un andamento vagamente reggae, sciorina una malinconia ultraterrena enfatizzata dal timbro vocale di Brady, sorta di Van Morrison prêt-à-porter. Stupisce soprattutto la facilità nella scrittura, sicché da attacchi quasi elementari si sviluppano soluzioni melodiche di presa rapida eppure non scontate, come nel caso della commovente Cold, cold night. Altro incontrovertibile esempio ne è la titletrack, celebrazione dell’essere musicista e sua precarietà. Attuale oggi come allora.

genere: pop-rock

venerdì 7 febbraio 2014

ANDY SUMMERS/ROBERT FRIPP

I advance masked (1982, A&M)


Il genio di Robert Fripp è un’indefinibile miscuglio di talento e capacità visionaria applicati al formato pop-rock. Ostinandosi in una ferrea disciplina mentale ispirata agli insegnamenti del mistico armeno Georges Ivanovič Gurdjieff, egli ha attraversato oltre 45 anni di storia della musica popolare licenziando incontestabili capolavori come bandleader nei King Crimson, ma non solo. Teorizzatore della tecnica chitarristica battezzata frippertronics, in abbinata a Brian Eno, il chitarrista inglese ha tracciato le coordinate del neonato genere ambient. Vanno poi sommate le decine di collaborazioni per album e artisti leggendari (Bowie, Gabriel, Sylvian ecc.), che evidenziano la bravura di un artista in grado di spaziare tra stili diversi emergendo in virtù della propria unicità.

Negli Anni ’80, con il progetto del Re Cremisi arenato nel prescindibile Beat, Fripp ne approfitta per schiarirsi le idee accettando una collaborazione per lo meno improbabile con l’allora chitarrista dei Police, Andy Summers. Ne consegue un album strumentale tutto da rivalutare. A stupire è l’omogeneità di una formula semplice ma efficace, sorta di pop-rock minimalista concentrato sul ritmo e le possibilità ritmiche dell’arpeggio. Le chitarre dei due, imprevedibilmente, si amalgamano alla perfezione gareggiando nell’arte dell’essenzialità e cesellando ombrosi acquerelli (Under bridges of silence), cavalcate chic-pop (China yellow leader) e brevi delizie ambientali (In the cloud forest, Lakeland).

Divertiti dalla risultante, i due registreranno nel 1984 una seconda prova in coppia, Bewitched, meritevole nonostante alcune sonorità eighties oggi lievemente datate. 

genere: trance-rock strumentale

mercoledì 29 gennaio 2014

PICCHIO DAL POZZO

Picchio dal pozzo (1976, Grog)


Sull’autentica originalità dei genovesi Picchio dal Pozzo non ci sono dubbi. I Nostri esordiscono a metà degli Anni '70 con un 33 giri personalissimo, melting pot di stravaganze italiane su strutture anglosassoni. La loro adesione a un sottogenere specifico quale il Canterbury sound della seconda ondata (quella cioè dei Soft Machine post-Wyatt, Henry Cow e National Health) li ha resi una delle realtà meno catalogabili della musica popolare nostrana di sempre.
 
Distanti dal prog tastieristico e dei tronfi tentativi orchestrali, i Picchio dal Pozzo hanno cavalcato in solitaria un sentiero impervio, elargendo due dischi di obliqua bellezza (si azzardi anche Abbiamo tutti i suoi problemi, del 1980) nel disinteresse, come prevedibile, del grosso pubblico. Il tutto condito con liriche che avrebbero ottenuto l’approvazione dello scrittore francese Alfred Jarry, teorizzatore della patafisica e personaggio mitizzato dai gruppi di cui sopra. La band ruota attorno a tre amici: Aldo De Scalzi (tastiere), Paolo Griguolo (chitarra) e Andrea Beccari (basso) i quali, nell’arco di un anno, imbastiscono un repertorio di sorprendente maturità, coniugando la libertà jazzistica dei sixties più rivoltosi con l’estro sperimentale dell’underground seventies.
 
Eclettico ma compatto, l'album Picchio dal Pozzo è capolavoro di commovente non-sense, scritto, arrangiato e suonato nella grazia di un’ispirazione oggi impensabile. Dovendone estrarre a mo’ di esempio gli episodi più significativi citeremo almeno Cocomelastico e i 10 minuti di Seppia, Manifesto lontano da futili intellettualismi e vicino alla libertà ch’è propria del bambino. 
 
genere: Canterbury-italian sound